C’è una forza primordiale, quasi tellurica, che attraversa la ricerca artistica di Marco Bettocchi. Nato a Bologna nel 1949 e formatosi tra il Liceo Artistico della sua città e la Facoltà di Architettura a Firenze, l’artista ha saputo costruire nel tempo un linguaggio visivo stratificato, complesso, sempre in dialogo tra gesto, materia e struttura. La sua opera è un corpo vivo, pulsante di tensioni e silenzi, dove pittura e scultura non sono esiti differenti, ma espressioni convergenti di una stessa necessità interiore: quella di dare forma all’invisibile.

Dall’espressionismo figurativo degli esordi, Bettocchi ha intrapreso un’evoluzione coerente e profonda verso un’astrazione lirica e potentemente materica, che affonda le radici nella pittura informale europea e si arricchisce di una sensibilità architettonica di origine progettuale. I suoi dipinti recenti, realizzati con tecniche miste che includono olio diluito, carte veline colorate, terre e stoffe, sono composizioni in cui il colore non è mai mera superficie, ma sostanza vibrante, campo di energia e sedimentazione di emozioni.

La sua grammatica visiva si fonda sulla stratificazione e sulla rottura controllata. Le superfici sono spesso crettate, spezzate, consumate. L’opera vive del suo stesso processo di trasformazione: nulla è statico, tutto è attraversato da forze contrapposte. Le zone cromatiche si contendono lo spazio: neri densi e assoluti si contrappongono a bianchi corrosi, a gialli che esplodono come fenditure di luce, a rossi che paiono ferite aperte. Il colore è corpo, ma anche trauma. È materia che grida e tace, che costruisce e disgrega.

In alcune opere, l’inserimento di frammenti di specchio o elementi geometrici allude a una ricerca di equilibrio tra disordine organico e struttura razionale. È in questa tensione che si colloca l’identità più autentica di Bettocchi: artista capace di abitare il confine tra caos e forma, tra istinto e misura. L’eco della formazione architettonica non è mai fredda o calcolata, ma funziona come scheletro implicito, come intelaiatura invisibile che sostiene il tumulto pittorico.

Parallelamente, la sua scultura ha seguito un percorso altrettanto significativo. Dopo una breve fase sperimentale con il ferro, l’artista ha scelto il legno come materia privilegiata. Con scalpelli e sgorbie modella volumi dinamici, spesso segnati da fratture e linee oblique, come se la forma nascesse da una tensione interna mai del tutto risolta. Le sue sculture, pur nella solidità materica, conservano un senso di movimento trattenuto, come corpi pronti a liberarsi dalla loro stessa massa.

Negli ultimi anni, il colore è tornato a popolare anche le sue opere tridimensionali, riattivando un dialogo con la pittura iniziato già negli anni Ottanta e Novanta. La sua arte si è fatta ancora più ibrida, più libera, più esposta al rischio – e quindi più autentica.

Il soggiorno a Capo Verde ha rappresentato una parentesi feconda e rivelatrice. Le cromie del paesaggio, la luce oceanica, i ritmi lenti e rituali della vita isolana hanno agito come detonatori interiori, rinnovando l’energia creativa dell’artista. Il riconoscimento del Ministero della Cultura capoverdiano ne è la conferma simbolica.

Rientrato in Italia, nel suo studio di Faenza, Bettocchi continua oggi una produzione intensa e rigorosa, sempre proiettata verso la scoperta. Le sue opere non si limitano a essere oggetti visivi: sono territori emotivi, superfici da percorrere con lo sguardo come si attraversa un paesaggio interiore. Ogni segno è traccia di un passaggio, ogni forma è frutto di un’urgenza. In un tempo in cui l’arte rischia spesso di diventare decorazione o citazione, Bettocchi ci ricorda che creare è un atto essenziale, un gesto che cerca senso nel disordine, bellezza nella ferita, verità nella materia.

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